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Essere umani, tutti

Quella di Elisabeth, 4 anni, Angelica 8 e Francesca, 20 anni, le tre sorelle di origine bosniaca, morte lo scorso 10 maggio nel rogo del camper nel quale vivevano insieme ad altri 10 membri della famiglia, sì 13 persone in un camper, è una storia che brucia ancora e non può essere archiviata facilmente.
Un fatto che fa male alla nostra città, che sgretola l’immagine di una capitale europea accogliente, che rischia di polverizzare anche i tentativi di integrazione che da anni vengono fatti. Una tragedia che mostra, in tutta la sua durezza, un volto della nostra città in cui i tratti dell’indifferenza sono sempre piu marcati.

“Sono morti del quartiere” si leggeva il giorno dopo su uno striscione che si affacciava sul parcheggio del centro commerciale dove era parcheggiato il camper in cui viveva questa numerosa famiglia.

E poi altri striscioni, come quello con la scritta “Centocelle antirazzista”, fiori, bigliettini di scuse, come il tenero “Carissime amiche, mi sento in colpa pure io. Che Dio vi sia vicino”.

Ma anche voci di protesta, di cittadini con pregiudizi duri, di chi associa alla parola rom solo il concetto di delinquenza. Due volti dello stesso quartiere. Due anime della stessa città.

Sento ancora un pugno nello stomaco a ripensare al tragico elenco di nomi recitato durante la veglia di preghiera promossa dalla comunità di Sant’Egidio all’indomani dell’accaduto. Quante morti innocenti! Quante vite distrutte, soprattutto di minori, in questo triste e numeroso elenco che conteneva oltre 100 nomi.

Cessato il clamore del momento e la commozione per le vittime innocenti, non possiamo lasciarci travolgere dalla “globalizzazione dell’indifferenza”, come ci ammonisce Papa Francesco. Vietato anestetizzare le coscienze, come se questi morti non fossero i nostri. Come se fosse normale vivere in tredici stipati in una scatola di lamiera ospitata in un parcheggio di periferia, senza corrente elettrica, né acqua. Come se finché succede lontano da me non è successo.

Non è ammissibile che intorno a noi, nella nostra città, ci sia un mondo parallelo, creato dalla cultura dello scarto, fatto di ultimi. Ultimi, come i rom che vivono nei loro accampamenti, come i senza fissa dimora negli anfratti o sotto ai ponti, come i transitanti con gli occhi pieni di guerra e le tasche piene di fame. Più di 15mila persone, secondo la Caritas diocesana, delle quali ci accorgiamo solo quando la loro presenza ci turba, quando sporcano, rubano, sono molesti.

Il triste rogo di Centocelle, allora, è solo la punta di un iceberg che ci mette davanti al banco di prova dell’accoglienza che la nostra città non riesce ancora a superare.

Non basta più la buona volontà dei singoli o delle associazioni che da anni si dedicano a progetti di accoglienza degli emarginati. Occorre un salto di qualità per mettere a sistema gli interventi per potenziarli e renderli più efficaci.

E serve anche la presa di coscienza che ognuno ha le proprie responsabilità:

  • Le istituzioni chiamate ad implementare la strategia nazionale di inclusione per uscire dall’emergenza continua praticando una soluzione abitativa dignitosa, ma anche scolarizzazione, cure mediche, inserimento lavorativo con incentivi magari per chi assume ed un controllo capillare. Questa è la strada da seguire per combattere i pregiudizi e far capire alla comunità che “rom” e “delinquenza” non sono per forza sinonimi.
  • La società civile perché unendo le forze sane della città, si faccia prossima tra istituzioni e cittadini con progetti di inclusione e di educazione contro le discriminazioni.
  • La comunità tutta, perché non si lasci sopraffare dalle ideologie, ma alimenti il desiderio di non lasciare nessuno ai margini.

Siamo tutti corresponsabili. E tutti dobbiamo “essere umani”, letto proprio come invito a mettere la persona al centro, ad attuare la misericordia con gesti concreti, a scandalizzarci perché un povero rovista tra i nostri rifiuti e non perché li sparge per strada.

E torna ancora utile la lezione di Papa Francesco, che ritirando nel 2016 il premio Carlo Magno, ha dichiarato: «Siamo invitati a promuovere una cultura del dialogo cercando con ogni mezzo di aprire istanze affinché questo sia possibile e ci permetta di ricostruire il tessuto sociale. La cultura del dialogo implica un autentico apprendistato, un’ascesi che ci aiuti a riconoscere l’altro come un interlocutore valido; che ci permetta di guardare lo straniero, il migrante, l’appartenente a un’altra cultura come un soggetto da ascoltare, considerato e apprezzato. È urgente per noi oggi coinvolgere tutti gli attori sociali nel promuovere “una cultura che privilegi il dialogo come forma di incontro”, portando avanti “la ricerca di consenso e di accordi, senza pero separarla dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza esclusioni”.

E qui ci sentiamo chiamati in causa come movimento di pedagogia sociale. Il Papa ci ha affidato la cultura del dialogo come compito educativo per ricostruire il tessuto sociale, per tessere legami solidali nella comunità, per impedire altre morti innocenti. Facciamolo nostro.