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Aspettando la festa del lavoro dignitoso

di Lidia Borzì

Avete mai provato ad associare la parola “crisi” ad uno sguardo? A sostituire i flussi della finanza con le storie, le manovre economiche con le persone, lo spread con le voci di protesta? A immedesimarvi in chi non ha mai lavorato o in chi rischia di non farlo più. Nei precari, nei cassaintegrati, negli esodati?

Pensiamoci.

Un dovere per tutti alla vigilia di questo 1 maggio ancora amaro. Non c’è festa del lavoro se non ci sono i festeggiati, ovvero i lavoratori, come rappresenta la nostra cartolina diffusa per l’occasione, con un banchetto tutto apparecchiato, ma i posti a sedere vuoti.

Un monito per tutti ed in particolare per le ACLI che hanno la fedeltà al lavoro nel proprio DNA, nella propria storia, nella propria ragion d’essere.

Un’esortazione per i cattolici, che si preparano alla 48ª Settimana Sociale (Cagliari, 26 -29 ottobre 2017), che avrà per tema proprio il “Il lavoro che vogliamo. Libero, creativo, partecipativo e solidale”.

Pensiamo a che senso abbia il lavoro oggi.

C’è un grande bisogno che il lavoro torni ad essere un arricchimento non solo economico: una parte della vita, una cosa che dia un senso, che ci faccia crescere e vivere meglio.

Avere o non avere un lavoro fa la differenza, non solo in termini di reddito, ma anche per sapere cosa si fa al mondo. Perché con il lavoro l’essere umano trova un modo concreto per esprimere le proprie capacità, misurarsi con la realtà, imparare a stare con gli altri, impegnarsi in vista di un risultato, dare il proprio contributo al Bene Comune.

Al di là dei suoi aspetti problematici, il lavoro ci aiuta a essere pienamente cittadini.

Invece oggi il lavoro manca e quando c’è è spesso precario, in nero, mercificato. Senza lavoro decente non c’è dignità, non si è solo poveri, ma impoveriti, privati della possibilità di guardare al futuro.

Ne sappiamo qualcosa nel Lazio, nel quale Roma incide per il 72%, che si pone al quarto posto tra le regioni italiane per numero di lavoratori in nero e tra questi non solo immigrati, ma anche tanti giovani. A questi aggiungiamo i cassintegrati che solo a Roma hanno raggiunto circa le 30mila unità e la soglia della disoccupazione giovanile che supera il 31,5%; e la capitale, lo sappiamo, è sempre paradigmatica per tutto il paese, tant’è che anche la Conferenza Episcopale Italiana, nel suo messaggio per il 1 maggio, parla di lavoro come emergenza nazionale.

Ci troviamo in un momento storico in cui un’intera generazione di giovani rischia di essere sistematicamente esclusa. Di fronte a questa situazione, non si può far finta di niente. Né tantomeno rassegnarci al peggio.

Ce lo chiede anche Papa Francesco: “Non si può parlare di futuro – ha detto qualche tempo fa -, senza assumere la responsabilità che abbiamo verso i nostri giovani; più che responsabilità, la parola giusta è debito. Abbiamo condannato i nostri giovani a non avere uno spazio di reale inserimento, perché lentamente li abbiamo emarginati” e costretti “a emigrare o a mendicare occupazioni che non esistono”.

Davanti alle parole del papa torna più che mai attuale la nostra indagine condotta su un campione molto rappresentativo di 1000 giovani di Roma e provincia, Avere 20 anni, pensare al futuro, curata grazie alla preziosa collaborazione dell’IREF, nell’ambito delle attività che stiamo portando avanti con il progetto “JOB to go il lavoro svolta!”. Un itinerario di educazione e formazione promosso nelle scuole e nelle parrocchie con la Cisl di Roma e Rieti.

Da questa indagine emergono da un lato dati allarmanti che pesano come macigni, ovvero  i giovani disposti a rinunciare alle tutele faticosamente ottenute dalle generazioni precedenti, ferie, malattia, maternità, pur di trovare o  mantenere il posto di lavoro. Giovani disposti per più del 68% a lasciare il Paese. Giovani che non conoscono le opportunità a loro riservate come Garanzia Giovani. Dall’altro giovani che non sono affatto bamboccioni, che guardano con speranza al futuro, che hanno consapevolezza delle proprie capacità, si reputano affidabili e abili nel problem solving.

Giovani che considerano una marcia in più l’alternanza scuola lavoro, avere competenze specialistiche, la formazione permanente.

Davanti a questi dati, abbiamo un’unica soluzione: un vero cambiamento culturale che deve portare da una parte ad avere un approccio che superi l’idea del lavoro come scambio prestazione –compenso.

Dall’altra a misure concrete per avvicinare i giovani al lavoro, e far conoscere loro le opportunità come Garanzia Giovani e il Servizio Civile, che la nostra ricerca ha dimostrato essere ignorate da tanti.

Tutto questo diventa più efficace se ciascuno si rende corresponsabile e fa la sua parte,

dando vita ad una vera e propria Alleanza per il lavoro dignitoso, un patto nel segno della sussidiarietà circolare, tra tutti i soggetti – i Istituzioni, parti sociali, società civile, imprese, Scuola, Università,  e Chiesa – interessati a educare al lavoro, contrastare la disoccupazione e promuovere il lavoro decente.

Sappiamo che per riequilibrare la situazione ci vorrà tempo. E, data la gravità di queste circostanze, non ci si può limitare a dire a chi è senza lavoro di avere pazienza. Occorre agire fin da subito individuando interventi che alleggeriscano la sofferenza umana e sociale, perché il lavoro non è mai un affare solo personale, ma è sempre anche una questione sociale.

Ecco perché occorre cambiare passo, e farlo senza aspettare oltre. Torniamo a mettere al centro della nostra economia e della nostra società i lavoratori, cioè le persone, le loro capacità, le loro qualità. Ad umanizzare il lavoro: tra concretezza e speranza.