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Equità sanitaria, una sfida per la dignità

di Lidia Borzì

Alla fine, settembre è passato, dopo due anni di pandemia, di scuole chiuse, di bambini e bambine costretti a casa per la tutela della salute, ma a scapito della concretezza e della bellezza dei legami vivi, del brivido del primo giorno, della scelta del vestito migliore e dello sguardo giusto per affrontare le nuove sfide, finalmente si è tornati tra i banchi.

Cartelle pronte, diari immacolati, quaderni pronti ad accogliere l’incertezza di un compito difficile e l’entusiasmo delle nuove scoperte. La scuola apre, e in città si torna a vivere, quasi con incredulità, il ritorno alla “vita di prima” con la speranza che possa essere un inverno davvero libero dall’incubo di questa pandemia che ancora sembra mordere con insistenza.

Quella vita che ci sembrava così “certa” e immutabile e che abbiamo imparato, ahinoi, a scoprire fragile e cagionevole se attaccata da un virus tanto piccolo quanto tenace e resistente.

Settembre è il mese dei ritorni, forse questo lo è in modo particolare, e se da una parte non possiamo che accogliere con brio e felicità questo ritorno lento ma costante alla “normalità”, dall’altra non possiamo distogliere lo sguardo da quello che questi due anni ci stanno lasciando in eredità.

La coda lunga della pandemia è un terreno incerto che ha visto nascere nuove forme di povertà, e soprattutto acuire in modo drammatico le vecchie.

Dalle povertà economiche a quelle relazionali, da quelle educative a quelle valoriali, una quotidianità problematica che non risparmia nessun settore, compreso quello che più andrebbe salvaguardato, quello sanitario. L’equazione è semplice: alcune persone hanno l’opportunità di vivere una vita più sana e godere di un migliore accesso ai servizi sanitari rispetto ad altre, solamente in relazione alle condizioni in cui nascono, crescono, lavorano e invecchiano.

Quando ragioniamo sulle diseguaglianze nell’accesso alle cure sanitarie è fondamentale, infatti, entrare nell’ottica che stiamo percorrendo quel terreno fondamentale che riguarda i diritti di cittadinanza, sanciti dalla nostra Costituzione.

L’equità sanitaria è letteralmente ‘una questione di vita o di morte’. O per dirla in termini meno drastici, una cartina tornasole su cui si riflette il benessere individuale e sociale. L’evento drammatico della pandemia l’ha dimostrato chiaramente: l’impatto del Covid-19 è stato diverso da territorio a territorio, abbattendosi più duramente sulle fasce sociali e sulle classi generazionali più esposte e meno tutelate.

In questo senso ha impartito a tutti noi una grande lezione sulla importanza di una democrazia della CURA, diffusa e compiuta. Sull’importanza di mettere al centro le disuguaglianze sanitarie in tutte le politiche per costruire un mondo più sano e giusto. Per tutti. Ovunque.

Il binomio pandemia-contesti e modelli sociali ha confermato che senza una visione sistemica non possiamo risolvere i problemi della salute umana, che non può mai essere ridotta alla sua sola dimensione medico-biologica. Il più naturale degli agenti (un virus) chiede strumenti di difesa SOCIALI; dal sistema sanitario alle reti informali e familiari, dal rapporto virtuoso tra sanità pubblica e soggetti di prossimità, passando per il metodo della co-progettazione e della co-programmazione nella governance territoriale, essenziale per rispondere alla grande frammentazione dei servizi assistenziali.

In questo come in altri campi, l’ottica familiare ci aiuta a intercettare i problemi nella loro concretezza. A toccarli con mano. L’Health Gap (la diseguaglianza sanitaria) si coglie, infatti, accendendo i fari sulla situazione della famiglia. È qui che troviamo i soggetti vulnerabili più esposti ai rischi della salute. È qui che il castello di carte crolla. Anzitutto: le famiglie numerose, le famiglie con anziani non autosufficienti, le famiglie con minori, le famiglie mono-genitoriali, le famiglie mono-reddito. In ciascuna di queste la precarietà economica e l’erosione dei redditi (sempre più marcata in questa fase di inflazione, con la crisi energetica che ha comportato un forte aumento dei costi dei beni, anche di prima necessità) si riflette immediatamente sulla disponibilità di risorse per le cure mediche.

I numeri ci aiutano a definire la portata di questa emergenza. Nel 2021 la povertà sanitaria in ITALIA è cresciuta di oltre il 37% rispetto al 2020. Si è calcolato che 600mila poveri sono senza cure. All’interno della spesa sanitaria, nelle famiglie povere il 62% se ne va per i farmaci e solo il 7% per le spese dentistiche. Facendo un passo indietro già nel 2020 il 15,7% delle famiglie italiane aveva dovuto tagliare le spese per le cure per far fronte alle difficoltà economiche, messa davanti a un “aut aut” inaccettabile. Ad aggravare questo quadro già drammatico arriva anche la notizia sul pignoramento di 200mila pensioni degli anziani che se rinunciano a comprarsi da mangiare, figuriamoci se fanno prevenzione, o prendono degli integratori.

La salute, insomma, è il più precario dei beni ed è quello più esposto al rischio degli eventi imprevisti che fanno precipitare le famiglie da una situazione di “galleggiamento” alla povertà vera e propria. In questo senso, la famiglia da ammortizzatore sociale e fattore di resilienza, primo attore di un welfare di prossimità, si può rovesciare in un moltiplicatore di rischio per minori, giovani, donne e anziani. Basta poco, pochissimo. Un infortunio sul lavoro, una malattia improvvisa, l’invecchiamento quando comporta la perdita di autosufficienza uno dei suoi membri, ed ecco che prende forma un circuito di precarietà e rischio di esclusione/marginalità dal quale diventa difficile uscire.

Quali risposte dare a questi problemi? Anzitutto: guardare in faccia la povertà è il primo passo da compiere per ridurre le disuguaglianze, a partire da quelle sanitarie. Questo significa incrementare la medicina territoriale e gli strumenti di prossimità sanitaria, i servizi di assistenza domiciliari, le ‘case della salute’ dove restituire alle persone l’integrità e la dignità della loro vita: relazionale e sociale. E poi ripensare i servizi in modo che accompagnino le persone durante tutto l’arco della vita, mettendo insieme in maniera sistemica il welfare territoriale a quello familiare e aziendale. Infine, giocare d’anticipo spostando l’asse dell’intervento solidale verso una dimensione preventiva e

Salute e l’integrazione sociosanitaria, servizi e solidarietà. Ecco i termini per scrivere una nuova equazione. Un’urgenza che speriamo possa trovare spazio in cima all’agenda politica del governo nascente.

Con le ACLI di Roma ci stiamo muovendo in questo orizzonte di senso e azione per contrastare la povertà sanitaria, sempre in una logica di rete, per cercare di proporre una nuova idea di welfare sintonizzato sui reali bisogni sociali dei cittadini, favorendo anche l’acquisizione di competenze nella gestione di stili di vita sani.

Da tempo portiamo avanti una collaborazione con il Bambin Gesù, e Geriatria dell’Ospedale Sant’Eugenio e il Gemelli. All’interno dei 12 ambulatori di ginecologia di quest’ultimo abbiamo intrapreso un percorso di accoglienza e ascolto con i nostri volontari: una preziosa opportunità non solo per orientare le persone che necessitano di supporto medico, ma anche per offrire loro una risposta a quei bisogni inespressi, causa di forti disagi.

E ancora in questa direzione vanno i percorsi di prevenzione della salute e di lotta contro i tumori rivolto alle persone in grave difficoltà economica, che abbiamo realizzato con la LILT Roma. Giornate gratuite di visite che hanno permesso a famiglie fragili, senza tetto e persone anziane di riprendere o avviare un percorso di prevenzione oncologica e sanitaria al quale stiamo affiancando un percorso di presa in carico completa della persona.

Da poco, invece, abbiamo firmato un protocollo d’intesa con l’Ordine Provinciale di Roma dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri per sviluppare sinergicamente azioni di prevenzione e di tutela della salute e di una corretta alimentazione, indirizzate alle scuole, alle famiglie, ai centri anziani, ai circoli e ai nuclei del Sistema ACLI Roma.

Siamo consapevoli che minori e gli anziani, come dice sempre papa Francesco, sono quelli che rischiano di più di cadere nell’irrilevanza in una “cultura dello scarto” che fa prevalere solo il criterio della produttività. Ugualmente la non-autosufficienza pesa sulle famiglie a fronte di un contesto che non se ne fa carico solidaristicamente e concretamente e di una cultura che esalta l’autosufficienza dell’individuo.

Il bene della salute è il più importante dei beni comuni. Coincide con il bene e il riconoscimento della preziosità della vita. Di ciascuno e di tutti. È necessario tutelarlo in un’ottica relazionale che colloca la persona nella trama dei suoi legami vitali, a partire dal contesto familiare.

Universalismo dei diritti e prossimità degli strumenti di assistenza, tutela e accompagnamento, sono il binomio vincente per affrontare la sfida di una salute EQUA, che tenga conto di tutti e di ciascuno, in misura eguale e lungo l’intero arco della vita. Così che l’invecchiare sia un segno di benedizione e di compimento, e non un sinonimo di declino e di abbandono. E che il crescere sia un’avventura di senso e di condivisione.

Salute, servizi e solidarietà, questi termini sono uniti da una parola CURA, che li contiene tutti.

Cura delle fragilità che compromettono il benessere delle persone e delle famiglie.

Cura delle asimmetrie per contrastare le crescenti diseguaglianze tra persone e anche tra territori.

Cura del Bene Comune da mettere al centro della Buona Politica.

Cura dei legami per ricucire il tessuto sociale sfilacciato e contrastare il dilagante virus dell’indifferenza.

Forse questo è l’unico caso in cui non c’è bisogno di un periodo di sperimentazione. Questa può essere davvero la ricetta per costruire un mondo più sano e giusto, affinché ciascuna persona possa avere pari dignità.