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La narrazione della violenza di genere: dovere di cronaca, profili deontologici e tutela della vittima.

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Le parole hanno un peso e quelle di chi opera nel campo della comunicazione mediatica lo hanno ancora di più, soprattutto quando trattano un tema così delicato come quello della violenza di genere. È partita da questa consapevolezza il corso di formazione dal titolo “La narrazione della violenza di genere: dovere di cronaca, profili deontologici e tutela della vittima”, che abbiamo organizzato in collaborazione con l’Agenzia Comunicatio e con l’avallo dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio, che ne ha riconosciuto i 6 crediti formativi.

Un’occasione di incontro, ascolto e dialogo, moderata dal giornalista Gianluca Scarnicci, che abbiamo vissuto giovedì 20 giugno, presso l’Auditorium della Fondazione Enpam, insieme a tantissimi giornalisti e giornaliste.

Dopo il saluto del presidente della Fondazione Enpam, Alberto Oliveti, che ha sottolineato “la grande responsabilità delle professioni del sapere per favorire un cambiamento culturale”, la nostra presidente Lidia Borzì, ha tracciato il contesto valoriale in cui si è inserito questo corso di formazione: “L’associazionismo e il giornalismo condividono responsabilità sociale, culturale e di azione sulla violenza di genere. La narrazione agisce direttamente nella realtà e quindi una narrazione attenta e consapevole può offrire un grande aiuto per modificare la società”.

Combattere gli stereotipi con il potere delle parole grazie allo “sguardo del cronista e del mediatore/narratore che “deve essere acuto e consapevole, abile a destreggiarsi tra il dovere di raccontare e capacità di farlo con sensibilità e attenzione verso i risvolti emotivi e legali delle vittime e familiari”.

il focus

Delfina Janiri, medico psichiatra e psicoterapeuta della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” IRCCS di Roma, ha approfondito il fenomeno della violenza di genere, mettendone in luce i meccanismi e smantellando alcune false credenze, come quella per cui si crede che tale fenomeno accada soprattutto negli ambienti esterni. In realtà “l’habitat principale sono le mura domestiche e i rapporti sentimentali, in cui si annidano e si mettono in atto forme di violenza continua, come ha dimostrato l’escaltion nel periodo di restrizioni dovuto al Covid-19”.

I numeri sono agghiaccianti, una donna su tre è vittima di forme di violenza (World Health Organization), le conseguenze ancora di più. “Oltre a generare cicatrici fisiche, la violenza di genere imprime ferite psichiche devastanti come sintomi ansiosi, depressivi, disturbi post traumatici da stress, alterazioni del sonno e comportamenti suicidari”.

Di ambito legale l’approfondimento dell’avvocato penalista Eleonora Appolloni, responsabile dello sportello antiviolenza, stalking e bullismo Fiore di Loto e componente del coordinamento donne delle ACLI. Tanti i riferimenti alla Costituzione e al Codice Deontologico del Giornalista, una figura che è chiamata a “riportare i fatti sempre nel rispetto della dignità e del decoro della persona, bilanciando l’esigenza di informare con quella di tutelare il diritto alla riservatezza”. Di riservatezza ha parlato anche la giornalista Chiara Pazzaglia, responsabile della comunicazione delle ACLI, che attraverso una serie di esempi tratti da articoli di giornale, ha dimostrato come “dai termini e dalle espressioni che si utilizzano può passare pericolosamente la normalizzazione di determinati comportamenti violenti”.

Una pluralità di voci, ognuna delle quali è stata interpellata sul proprio ambito di competenza, ha tracciato una direttrice comune. Quella di non seguire la strada che porta al sensazionalismo da racconto noir, bensì scegliere termini appropriati che non colpevolizzino la vittima e che non giustifichino mai e poi mai la violenza. Perché questa non ha giustificazioni!