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8 MARZO, UNA GIORNATA PER RICORDARE

FESTA DELLE DONNEdi Lidia Borzì, presidente ACLI provinciali di Roma

Care noi,

in occasione della Giornata internazionale della donna, chiediamo di lasciare a casa la retorica.

Risparmiateci tutte quelle cose che di solito ci vengono dette per l’occasione che – purtroppo – non cambiano (quasi) mai niente.

E, per favore, non portate neanche quegli inviti ammiccanti, che più che la nostra ricorrenza sembra ancora carnevale (anche perché se vogliamo, giustamente, il rispetto dagli altri, dobbiamo innanzitutto rispettarci da sole).

Certo, per lanciare qualche riflessione sensata, non è che abbiamo tutte a disposizione il palco della notte degli Oscar del cinema, come ha fatto  qualche settimana fa, la miglior attrice non protagonista per Boyhood, Patricia Arquette che ha ringraziato “tutte le donne che hanno partorito, tutte le cittadine e i contribuenti di questa nazione (l’America)”, aggiungendo, applauditissima da Meryl Streep: “abbiamo combattuto per i diritti degli altri, adesso è ora di ottenere la parità di retribuzione una volta per tutte, e la parità per tutte le donne negli Stati Uniti”.

Però magari anche qui da noi, tra blog e social network, incontri e dibattiti, un po’ di proposte riusciamo a farle circolare.

Come ACLI di Roma ci sta molto a cuore il tema dei diritti delle donne sul lavoro, dalla retribuzione (anche se non parliamo dei cachet delle star di Hollywood) alla maternità, alla conciliazione, passando per i percorsi di carriera.

Secondo l’Unione Europea nel rapporto del 2014, il divario salariale tra uomini e donne nel nostro Paese si attesta al 6,7%. Una percentuale inferiore a Francia (14,8%), Germania (22,4%), Regno Unito (19,15%). Pare che la questione sia in larga parte legata alle scelte delle donne stesse: si tende ad avere lavori con orari regolari e meno straordinari, le nostre lauree hanno meno valore sul mercato del lavoro, e si finisce per essere impiegate in lavori con retribuzioni più basse. Quindi le donne scelgono di guadagnare di meno?

Davvero un lavoro che si concilia meglio con la famiglia esclude l’ottenimento di ruoli di importanza e responsabilità? Siamo proprio sicuri che quando si tratta di negoziare benefit con il capo ci interessano solo quelli relativi alla copertura sanitaria per i nostri figli e non desideriamo, invece, anche miglioramenti economici e contrattuali? Davvero siamo disposte a rinunciare a fare figli per non compromettere la carriera?

Davvero siamo spontaneamente vulnerabili o siamo condizionate da fattori esterni?

Conosciamo già la risposta e la articoliamo con i dati.

Il numero medio di figli per donna è pari a 1,39, come nel 2013. Nei primi anni Duemila aveva iniziato a risalire e, soprattutto nelle regioni del Nord si evidenziava una correlazione positiva tra natalità e tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro. Poi la crisi ci ha fatto ripiombare nell’inverno demografico. In base ai dati Istat dello scorso mese, che si commentato da soli, sono 509mila le nascite nel 2014, cinquemila in meno rispetto al 2013, il livello minimo dall’Unità d’Italia.

Vien da pensare che per le donne italiane che vogliono diventare mamme, la questione spesso non sia se accettare una retribuzione più bassa, quanto decidere se lavorare meno. Perché figli e lavoro sono sempre meno conciliabili, non per scelta personale, ma degli altri.

La conferma arriva anche, a livello locale,  da un’indagine del 2104 su “Maternità e lavoro” realizzata a Roma dall’associazione Il Melograno con il contributo dell’associazione Orares e il patrocinio del Municipio Roma I Centro: il 78% delle donne infatti, dichiara di aver avuto un peggioramento delle proprie condizioni al rientro dalla maternità. E anche se il campione non è raccolto a livello nazionale, riguardando il municipio centrale della Capitale, può essere ritenuto significativo.

 

Se da una parte si segnala come nella maggioranza dei casi (51%) le donne abbiano mantenuto lo stesso lavoro di prima, dall’altra le percentuali di coloro che hanno visto un forte cambiamento sono drammaticamente significative: cambio nella tipologia di contratto (8%), cambio di ruolo, mansioni, ambiente (21%), perdita (8%) o cambio di lavoro (12%).

Per conciliare vita lavorativa e familiare al primo posto, con ben il 76% delle preferenze, le donne intervistate chiedono un maggior numero di asili nido pubblici, avvertito come bisogno cruciale nella città. Al secondo posto la necessità di avere tempi e luoghi di lavoro flessibili (67%). Il 61% poi considera un “servizio” fondamentale una diversa cultura aziendale.

Con la crisi, chi si sogna di lasciare il posto di lavoro? Eppure le neomamme, come certificato dall’Istat, continuano a dimettersi. Di quelle che hanno avuto figli nel 2010, una su quattro,nel 2012, quindi dopo due anni, era tornata a fare la casalinga.

Quante storie di questo tipo al nostro Patronato, comprese quelle delle famigerate “dimissioni in bianco”, pratica illegale, ma ancora attuata.

Le tante donne che si rivolgono ai nostri servizi di assistenza, chiedono essenzialmente una cosa: quali diritti per chi è occupata nella cura della famiglia (figli, genitori anziani, malati, parenti con disabilità), che, in termini di impegno e tempo è equivalente a un lavoro “fuori casa”?

Lo confermano gli economisti: il tempo dedicato dalle donne italiane al lavoro familiare resta in Europa il più alto (5 ore e 20 minuti contro 3 ore e 42 delle svedesi, il più basso), mentre gli uomini italiani sono quelli che se ne fanno meno carico (1 ora e 35 minuti contro 2 ore e 48 degli estoni, i più collaborativi).

E quando l’oggetto della conciliazione non è la maternità ma una malattia? Quante donne perdono il lavoro o rischiano di perderlo durante o dopo una lunga malattia?

Su questo argomento così delicato è difficile reperire dati, perché non se ne parla molto. Anche per questo le ACLI di Roma insieme al Nucleo ACLI ACEA in collaborazione con la Commissione delle Elette di Roma Capitale hanno deciso di puntarvi i riflettori, il prossimo 9 aprile una data non casuale, voluta per mantenere alta l’attenzione sul tema anche a distanza di un mese dalla giornata della donna, con una tavola rotonda in Campidoglio, organizzata per capire come sostenere le donne colpite da malattie che tornano al lavoro durante o dopo la terapia, dal punto di vista psicologico e legislativo, cosa possono fare istituzioni, datori di lavoro, sindacati, patronato per agevolarle, e come creare una rete tra medici e luoghi di lavoro per la prevenzione e la tutela della salute della donna.

Per dire che il lavoro, a volte, può essere anche terapeutico, e quindi ancor più necessario.

E mentre  in materia di lavoro, dal decreto Poletti al Jobs Act, si sta generando un dibattito vivace, su un punto siamo tutti d’accordo: il rilancio del Paese passa anche attraverso un maggior coinvolgimento delle donne nel mercato del lavoro.

Allora come regalo facciamoci riconsegnare l’agenda della nostra giornata, anche lavorativa; facciamoci dare incentivi nel caso di stipendi medio bassi, in modo da “comprare” strumenti di conciliazione che oggi le lavoratrici non possono permettersi.

Facciamo che questa giornata inizi dal lavoro, solo così sarà davvero una festa.